#CoglioniTutti

Valentino G. Colapinto
A proposito della campagna di sensibilizzazione per il rispetto dei lavori creativi
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Negli ultimi giorni ha avuto grande successo Giovane Sì, Coglione No, una campagna di sensibilizzazione per il rispetto dei lavori creativi, realizzata dal collettivo Zero. Si tratta di tre video divertenti, che hanno totalizzato nel momento in cui scrivo qualcosa come due milioni di visualizzazioni.
Protagonisti un idraulico, un giardiniere e un antennista, che al termine del lavoro non vengono pagati con denaro ma con l’offerta di visibilità e la possibilità di fare curriculum. Situazione paradossale per i mestieri scelti ma che è la norma per le professioni creative: giornalisti, fotografi, videomaker, attori, webdesigner, artisti, editor, ecc.

La campagna #CoglioneNo ha fatto il giro del web grazie alle condivisioni di milioni di giovani, che vi hanno riconosciuto l’urlo di dolore di un’intera generazione, e ha suscitato interventi da parte dei giornali e blog più importanti. Non tutti però a favore delle presunte vittime del sistema.
La morale di #coglioneno, infatti, è che i creativi non devono rendersi complici dei loro sfruttatori, accettando offerte di lavoro gratuito. Ma è davvero così? E basterebbe una ribellione generale degli sfruttati per cambiare le cose? Non credo.

La dura realtà è che oggi in Italia c’è un’offerta eccessiva di lavoro “creativo” rispetto alla domanda. Questa enorme sproporzione è frutto della scellerata creazione di corsi di laurea come Scienze della Comunicazione, che, invece di preparare efficaci comunicatori, sforna inutili esperti in teoria della comunicazione.
Negli ultimi anni le università hanno inventato corsi e specializzazioni fantasiose, privi di alcun legame col mondo del lavoro e le sue effettive esigenze. Corsi che sono serviti unicamente a moltiplicare le poltrone dei docenti, ma hanno generato milioni di disoccupati, costretti a lavorare gratis o a riciclarsi facendo lavori che nulla hanno a che fare con gli studi intrapresi.

Importantissima anche l’influenza dei media (la tv prima e internet oggi), che hanno illuso tanti giovani, facendo credere a chiunque di possedere un qualche talento speciale e di dover inseguire a tutti i costi il sogno del successo in una professione creativa (dal ballerino al pubblicitario, dall’attore al giornalista).
Una filosofia all’americana che programmi come Saranno Famosi o Amici, talent show e fiction, siti e blog hanno inculcato nelle menti delle nuove generazioni, spingendo troppi verso il miraggio del successo, come tanti lemmings votati al suicidio, invece di seguire le orme dei genitori o professionalizzarsi in attività manuali, poco creative ma molto redditizie, come l’idraulico o il panettiere.

Un’offerta formativa disastrosa unita all’ideologia del successo a tutti i costi ha portato alla catastrofe attuale. Tutti vogliono fare gli artisti, come dice Sean Penn in This Must Be the Place, e nessuno vuole più “sporcarsi le mani” coi lavori di una volta.
È evidente che non basterà uno sciopero generale dei creativi (alquanto improbabile, visto lo sfrenato individualismo della categoria) per rimettere a posto le cose, perché in un’economia di mercato la retribuzione di un lavoro (creativo o meno) non può essere fissata per legge in base a un “equo compenso” (come sognano in tanti, giornalisti in primis), ma è il frutto dell’incontro tra la domanda e l’offerta.
Se ci sono tanti creativi disposti a fare gratis un lavoro, perché mai dovrei pagarlo? L’offerta eccessiva di “creatività” ne ha azzerato il valore. E se non ti pagano, è perché sei circondato da altri creativi come te, disposti a lavorare gratis o a sbattersi dieci ore al giorno per tre o quattrocento euro lordi al mese con tanto di partita IVA.

Ma saranno poi veramente creativi questi “creativi”? Ci sono fin troppi giornalisti che scrivono articoli banali e sgrammaticati (anche su siti di quotidiani nazionali), videomaker amatoriali, illustratori scarsi, webdesigner assolutamente improvvisati. La creatività è per forza di cose una qualità che non tutti possiedono. Non tutti possono essere creativi, né devono esserlo per forza.

E quindi il vero problema non è la retribuzione: se un creativo è davvero bravo, si può stare certi che il mercato lo compenserà come merita.
Il problema è l’ego smisurato che la cultura dei selfie ha creato. Il problema sono le velleità di cui ci nutriamo e che ci spingono ogni giorno a spacciarci per quello che non siamo sui Social. Il problema è il fossato che abbiamo creato tra la cruda realtà e i nostri sogni di gloria o di boria.

Ma qual potrebbe essere la via di salvezza per chi non riesce a farsi pagare? Dedicarsi a lavori non creativi ma molti richiesti e retribuiti, specializzarsi in nicchie dove c’è poca concorrenza, espatriare dove c’è maggiore domanda per la propria professionalità. Oppure puntare sulla vera creatività, sull’innovazione, come fanno per esempio i makers che con le stampanti 3D stanno realizzando una nuova rivoluzione industriale. Ma queste sono cose che nelle università italiane non si insegnano (ancora).
Basta col vittimismo, l’essenziale è aprire gli occhi e far decrescere il nostro ego, abbandonando le velleità in cui ci siamo cullati finora. Solo così potremo iniziare a costruirci un futuro economicamente sostenibile, smettendo di farci mantenere dai genitori e di partecipare a una quotidiana guerra tra poveri.

venerdì 24 Gennaio 2014

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